La Real Chiesa Madrice Insigne Collegiata, meglio conosciuta come Real Duomo o Duomo di Erice, è il principale luogo di culto cattolico e chiesa madre di Erice, ubicato in piazza Matrice, nei pressi di Porta Trapani. È dedicato a Maria Assunta.[1]
La tradizione orale tramanda l’innalzamento di un primitivo tempio cristiano al tempo dell’imperatore Costantino nel IV secolo d.C., nell’epoca in cui il tempio di Venere Erycina venne, se non demolito, almeno chiuso. Fin da quell’epoca gli ericini abbracciarono la religione cristiana e costruirono alla Vergine Maria una piccola chiesa a partire dalla quale si è sviluppato l’edificio attuale. Sembra che in quel periodo fossero sorte ad Erice due chiese: una, dedicata alla Nostra Signora della Neve, eretta dentro l’antico castello, proprio nel luogo medesimo ove sorgeva il tempio di Venere; l’altra, pure dedicata alla Vergine Maria, ad occidente, affinché risultasse più facile allontanarsi da quel tempio per quanti – tra la popolazione – non avevano ancora abbandonato i riti della Venere Erycina.
La lunga disputa fra fazione latina e fazione catalana, animata dalle rivendicazioni degli Angioini sulla Sicilia, indussero Federico III d’Aragona a lasciare temporaneamente Palermo, per trovare cortese protezione fra le mura dell’amena località. Quando le vicende politiche consentirono il rientro del sovrano nella capitale, Federico volle lasciare un segno di gratitudine tangibile al centro e alla cittadinanza per l’ospitalità riservatagli. La cappella od oratorio, che secondo l’opinione di alcuni risalirebbe ai tempi di Costantino, venne quindi ampliata ed ornata dal sovrano aragonese verosimilmente impiegando nella fabbrica anche materiale proveniente dal tempio dedicato alla Venere Erycina, infatti sulla parete esterna destra dell’attuale chiesa sono incastonate nove croci greche provenienti dal tempio pagano, queste ultime parte delle aggiunte postume operate nel XVII secolo dall’arciprete Carvini. L’edificazione della chiesa assunse anche un significato religioso, quale ringraziamento alla Vergine per l’esito favorevole degli annosi conflitti interni.
Il Real Duomo fu realizzato nel corso dei primi decenni del XIV secolo – lo storico Antonio Cordici colloca l’inizio dei lavori nel 1314 – in stile gotico trecentesco sulla preesistente cappella dedicata alla Vergine Assunta, per volere di re Federico secondo il progetto affidato all’architetto Antonio Musso[2], a fianco della torre quadrangolare d’avvistamento. Quest’ultima edificata durante le guerre del Vespro, e in seguito trasformata alla fine del XIV secolo in campanile con bifore. Passarono parecchi anni prima che l’ampliamento del duomo fosse portato a compimento. Nel 1329 i lavori della fabbrica procedevano tanto a rilento, che Papa Giovanni XXII, attraverso l’emanazione di bolle pontificie, concesse speciali indulgenze a quei fedeli qui ad fabricam manus porrexerint adiutrices. La definitiva ultimazione avvenne intorno al 1372. La costruzione era articolata secondo l’impianto basilicale a tre navate, all’interno la volta del cappellone presentava una decorazione musiva mentre il corpo ecclesiale una diversa disposizione degli altari e degli ambienti.Il pronao
Nel 1426 fu aggiunto il pronao ad archi ogivali,[1] denominato Gibbena (da Age Bene: comportati bene), dall’arciprete Bernardo Militari per ospitare i pubblici penitenti venuti ad espiare peccati gravissimi. Contestualmente fu realizzata la scalinata accessibile da tutti i lati, che fu risistemata nel 1766 dall’arciprete Antonino Badalucco, con nove scalini.
Col fiorire del rinascimento, dei nuovi canoni estetici, dei numerosi patrocini furono in seguito addossate ulteriori cappelle, corpi e manufatti esterni. Sul lato settentrionale furono aggregati nuovi ambienti: la Cappella de Scrineis, la Cappella di San Nicola, la Cappella di San Giuseppe, i locali della sacrestia posti dietro il cappellone.
Tra il 1673 e il 1677 dall’arciprete Giuseppe Liccio fece arrotondare gli antichi pilastri della chiesa, compromettendone la stabilità strutturale.
La chiesa madre fu tra tutte le chiese ericine la prima ad essere consacrata da monsignor Bartolomeo Castelli, vescovo di Mazara nel maggio 1697.
Nel 1715 la madrice venne interdetta per effusione di sangue, allorché domenica 7 luglio, durante la celebrazione eucaristica, furono scaricate delle armi da fuoco contro Clemente Palma, pro-castellano, e Alberto Coppola, giurato, i quali persero molto sangue, che macchiò il pavimento della chiesa. I due aggressori furono catturati e condannati a morte. Le due vittime, il Palma e il Coppola, anche se gravemente feriti, guarirono. Il vescovo Castelli ordinò che si scegliesse in quel frangente un’altra chiesa per le funzioni parrocchiali, e si optò per la chiesa di san Martino. Il duomo fu ribenedetto il 16 agosto di quello stesso anno dallo stesso vescovo Castelli.
Intorno alla metà del XIX secolo il duomo ericino, modificato nel corso dei secoli in maniera episodica e frammentaria, presentava una stratificazione stilistica caotica, inadeguata ai canoni estetici del tempo: gli antichi pilastri, arrotondati nel XVII secolo, avevano verosimilmente un aspetto tozzo; i capitelli erano difformi tra loro; non esisteva un coro adeguato ai sacri uffizi, ma un’abside piuttosto angusta; le cappelle presentavano ciascuna una connotazione decorativa differente ed erano asimmetricamente disposte solo sul lato sinistro della chiesa, mentre altari e predelle erano disposti nelle già strette navate; la volta era meno slanciata di quella attuale e appariva bassa e incombente. Ai problemi di natura estetica si univano poi preoccupazioni di natura strutturale. L’assottigliamento dei pilastri si era rivelato dannoso e i sostegni mostravano lesioni così profonde da spingere, nel 1846, il vescovo Vincenzo Marolda a minacciare l’Interdetto nel caso in cui non fossero stati eseguiti urgenti lavori di restauro.
Probabilmente nello stesso anno venne quindi commissionato un progetto dall’arciprete Giovan Battista Miceli, che morì l’anno successivo, quando non era ancora stata presa alcuna decisione ufficiale. Apprendiamo da un esposto, privo di data e di firma, indirizzato al vescovo e conservato presso l’Archivio della Curia di Trapani, le notizie riguardanti le vicende che seguirono. Nella lettera, scritta probabilmente nel 1857, sono riferiti gli avvenimenti risalenti a un periodo compreso tra il 1845 e il 1852. L’autore della missiva – che viene identificato nel sacerdote ericino Carmelo Pirajno – dichiara di aver ricevuto l’incarico di eseguire i disegni per il restauro della chiesa prima dall’arciprete Miceli e in seguito, morto costui, dal decano Giuseppe Augugliaro. Dalla lettera si intuisce che non doveva trattarsi di un intervento poco invasivo, quanto piuttosto di un vero e proprio rinnovamento. Il presunto autore, conclusi i disegni, vide le sue proposte improvvisamente accantonate in favore di un altro progetto. La chiesa, rimasta senza arciprete, era infatti amministrata dal decano, con il quale i rapporti si dimostrarono fin dall’inizio tesi. L’Augugliaro non esitò ad escludere il Pirajno dai lavori di restauro, favorendo un giovane stuccatore palermitano, Giuseppe Uttiveggio, poco conosciuto e forse per questo a lui gradito: sembra che il decano non volesse subire molte ingerenze nel compimento dell’opera. Avviare un grande restauro e legare il proprio nome all’impresa doveva rappresentare per lui un forte incentivo. Il rinnovamento della chiesa fu essenzialmente frutto della volontà di quest’uomo che, in più di tredici anni di lavori, si adoperò incessantemente per reperire i fondi necessari e per superare i numerosi ostacoli incorsi.
Si trattò infatti di una vicenda particolarmente complessa, che può essere divisa in due fasi: la prima, iniziata nel 1852, che si interruppe nel 1858 a causa di un crollo in corso d’opera; la seconda, nella quale entrarono in gioco personaggi diversi e un progetto importato da Napoli, che prese avvio nel 1859 e si concluse nel 1865 con l’inaugurazione della nuova chiesa, non solo rinnovata, ma in parte riedificata.[1]
Con il nuovo progetto e le necessarie autorizzazioni amministrative i lavori cominciarono tra il dicembre 1852 e il gennaio 1853, ma nel mese di maggio vennero fermati da un improvviso intervento della Commissione di Antichità e Belle Arti, informata da una denuncia di Pirajno sul pericolo che i restauri intrapresi nel duomo potessero compromettere il valore storico e artistico del monumento. La Commissione, per verificare sul posto la realtà dei fatti, inviò l’architetto Francesco Damiani, il quale – incaricato di occuparsi personalmente dei lavori – oltre a una serie di consigli su come restaurare l’antico edificio, esortava a rispettare, nella realizzazione degli intonaci e degli stucchi ormai distrutti dal tempo, i resti dell’originaria decorazione, in modo da non snaturare la storicità dell’edificio. Queste raccomandazioni suonano come un monito nei confronti del progetto esibitogli, che Damiani sembra considerare eccessivamente invasivo. Esistevano opinioni contrastanti tra Damiani e la deputazione in merito al valore estetico del duomo di Erice: ciò si evince dalla lettera inviata da Giuseppe Augugliaro alla Commissione di Antichità e Belle Arti in risposta al sopralluogo di Damiani e alle polemiche riguardanti il progetto di restauro. Alla Commissione che chiedeva di esaminare un “piano d’arte”, per valutare le modifiche ipotizzate, il decano Augugliaro rispondeva di non avere le disponibilità economiche per fare eseguire un disegno e che del resto questo sarebbe risultato inutile, trattandosi soltanto di poco significative modifiche allo stato attuale, lasciando intuire la sua volontà di rinnovarne completamente l’aspetto della chiesa.
Tali divergenze sono sufficienti a spiegare il ruolo di semplice supervisore, più che di vero e proprio direttore dei lavori, che Damiani assunse all’interno del cantiere, così come si evince dal contratto d’appalto per l’esecuzione dei lavori di stucco, stipulato nel 1857, tra la deputazione preposta al restauro del duomo e i mastri Giuseppe Uttiveggio e Giuseppe di Noto.L’interno del duomo in una xilografia di Barberis del 1892
L’appalto e la relazione fanno riferimento ai soli lavori di definizione e decorazione degli interni; non vi erano considerate le opere murarie che, nel 1857, erano già state ultimate. La descrizione dei lavori presentata dallo stuccatore Uttiveggio proponeva differenze sostanziali rispetto alle idee espresse da Damiani nel 1853. Non si trattava di normali cambiamenti, ma di mutamenti profondi: se ne deduce che il carico di lavoro e le divergenze di opinioni in merito alle scelte da adottare, avessero indotto l’architetto a delegare molte decisioni alla deputazione, fornendo consigli e sorvegliandone l’operato, senza però partecipare in prima persona all’elaborazione del progetto. Ciò che dimostra la differenza esistente tra le tipologie di interventi esposte nei due documenti, ossia il rapporto di Damiani e la relazione di Uttiveggio, è la dichiarazione di intenti che le sottende, quella dell’architetto di non snaturare la storicità del monumento e quella, perseguita dalla deputazione, di celare lo “squallore” dell’edificio sotto un rivestimento di stucchi. Tra le opere previste vi era anche la riconfigurazione delle colonne, da realizzarsi mediante la trasformazione di quelle esistenti.
Il 2 luglio 1857 i lavori vennero interrotti per il crollo di una colonna. Questo incidente dovette preoccupare molto la deputazione, che si vide costretta ad operare scelte rapide nel tentativo di evitare un’interruzione dei lavori. Nel marzo del 1858 un crollo delle volte complicò la situazione del cantiere. Quattro ingegneri decisero di abbattere il nucleo centrale del duomo e ricostruirlo integralmente. Prese avvio l’ultima e definitiva fase dei lavori di rinnovamento. Le demolizioni cominciarono nel luglio del 1858 e nell’ottobre dello stesso anno la deputazione procurò a Napoli un disegno di un architetto del quale si afferma che fosse “uno dei migliori”. Per adattare il progetto ai resti della vecchia matrice venne incaricato Francesco La Rocca, converso dei minori conventuali, che modificò il disegno napoletano, mantenendo dello stesso soltanto le colonne.
Nel marzo 1859 ebbero inizio i lavori in muratura che proseguirono fino al 1863; nei due anni seguenti ci si dedicò alle opere di finitura e alla realizzazione degli stucchi. Si differenziò l’altezza dei pilastri, originariamente tutti uguali, e venne innalzata la volta maggiore della chiesa e realizzate finestre più ampie. Questo aumento di altezza si rifletté anche in facciata dove venne a formarsi un corpo arretrato rispetto alla compagine principale del prospetto, al quale, per conferire un’unità con l’originaria struttura furono aggiunti dei piccoli merli. Con questi lavori l’antica chiesa subì una radicale trasformazione nella volumetria interna ed esterna. Dopo il rifacimento in stile neogotico ottocentesco il duomo venne riaperto il 20 agosto 1865. Il domenicano Giuseppe Castronovo esaltò il magnifico disegno napoletano e il suo adattatore, il francescano Francesco La Rocca, originario di Salaparuta: rispetto alla sua partecipazione nel cantiere del duomo di Erice, La Rocca sembra aver svolto il ruolo di regista, realizzando un’opera di assemblaggio di progetti, modelli differenti e preesistenze, elevando così una struttura difficile e sfuggente a qualsiasi tipo di classificazione, che nel panorama siciliano non presenta né precedenti né imitazioni. La scelta dei modelli da parte della deputazione si era attestata, fin dall’inizio, su due capisaldi: riferimenti gotici di provenienza continentale e un abbellimento della fabbrica mediante elaborate decorazioni a stucco.
La nuova chiesa madre è sorretta da pilastri e colonne corinzie a fascio, in alternativa ai precedenti massicci piedritti squadrati, con bassorilievi: i piedistalli, le basi, i capitelli, il cappellone sono di stile neogotico. Nella navata centrale, scomparse le volte costolonate, il colonnato regge una volta gotica a sesto acuto; ugualmente goticizzanti sono le due navate laterali.