Il duomo di San Giorgio è la chiesa madre della città di Modica,[1] nel Libero consorzio comunale di Ragusa, ed è inserito nella Lista Mondiale dei Beni dell’Umanità dell’UNESCO.
Esso viene spesso indicato e segnalato come monumento simbolo del Barocco siciliano, di cui rappresenta l’architettura più scenografica e monumentale. Lo storico dell’arte Maurizio Fagiolo dell’Arco ha dichiarato che tale Chiesa «forse andrebbe inserita tra le sette meraviglie del mondo barocco».[2]
L’edificio è il risultato finale della ricostruzione sei/settecentesca, avvenuta in seguito ai disastrosi terremoti che colpirono Modica nel 1542, nel 1613 e nel 1693 (il più grave, vedi Terremoto del Val di Noto); lievi danni apportarono i sismi nell’area iblea succedutisi nel corso del Settecento e nel 1848.
Un edificio probabilmente già esistente nell’alto medioevo, poi distrutto nell’845 in seguito alle incursioni e conseguente dominazione araba.[1][5] Il primitivo luogo di culto denominato chiesa di Santa Croce sorgeva approssimativamente sull’area corrispondente all’attuale Cappella del Santissimo Sacramento.[6]
Il primo documento ufficiale che certifica la presenza di una chiesa dedicata a San Giorgio nella città di Modica è una bolla pontificia del 1150, emanata[7] da papa Eugenio III, con la quale bolla la Ecclesia S. Giorgi de Mohac veniva posta, insieme alla consorella intitolata a San Giovanni Evangelista già presente nella parte alta della città, sotto la tutela del abbazia della Santissima Trinità dell’Ordine benedettino di Mileto, in Calabria. Ma verosimilmente la sua prima edificazione sarebbe stata voluta direttamente dal conte Ruggero d’Altavilla, a partire dalla conquista normanna della Sicilia, intorno al 1090.[6]
San Giorgio fu eretta a collegiata[8] con bolla di Urbano VIII del 6 novembre 1630.[9]
Il 25 marzo 1643 il barone Renda governatore, a nome del conte Giovanni Alfonso Enriquez de Cabrera e Colonna, modicano e viceré di Sicilia, ricevette disposizioni di decorare l’antico tempio con nuove fabbriche e di abbellire quelle già esistenti, previ adeguati restauri.[6][10] L’impianto secentesco era stato progettato dall’architetto frate Marcello da Palermo, dei Minori Riformati di San Francesco di Modica, con la posa della prima pietra.[11] Il capomaestro della fabbrica di San Giorgio, promosso poi nel 1649 a capomaestro incegniero della città di Modica, era Carlo D’Amico, anch’egli originario di Palermo.[12]
Le indicazioni ricavate da attenti studi attribuiscono il progetto della facciata a Rosario Gagliardi, uno dei più validi architetti del Settecento europeo. [13] Il Gagliardi ed il Làbisi con la facciata-torre è per l’impostazione della facciata (dei primi due ordini) ispirarono la facciata della Cattedrale di Dresda, completata nel 1753 su progetto dell’italiano Gaetano Chiaveri.
I lavori per la ristrutturazione e rimodulazione del I ordine della facciata secentesca, che aveva resistito alle forti scosse del terremoto del 1693, con la modalità della giustapposizione, ovvero dello sfabbricare piccole porzioni per rifabbricare sopra, iniziarono nel 1702 e furono completati nel 1738, mantenendo il vecchio stile. Cospicue furono le offerte, per i restauri o i rifacimenti ex novo, da parte dei fedeli modicani, cui si aggiunsero un grosso contributo del Comune, e la generosa elargizione di re Filippo IV,[14] che rinunciò a favore della chiesa al contributo annuale che la Contea versava al Real Patrimonio di Spagna; in pochi mesi, si raccolsero ben 5.350 onze,[15] parecchi milioni di euro attuali come valore spendibile. Della facciata antecedente al terremoto, quella costruita secondo il modello di frate Marcello, se ne lesionò solo un pezzo, un arco di una porta, rifatto fra il 1702 ed il 1704 conforme all’antica pianta, al costo di appena 300 onze, comprendendo tale spesa il rifacimento di un pezzo di tetto della navata centrale, e del campanile.[16] La consegna dei lavori fu solennemente festeggiata in città il 9 febbraio del 1738 con un corteo alla presenza di tutte le autorità religiose – con il vescovo di Siracusa, monsignor Matteo Trigona a presiedere i riti – civili e militari dell’epoca.[17]
Il I e il II ordine della facciata attuale era dunque già completo[18] nel 1760, anno in cui fu dato l’incarico al Làbisi di realizzare il III ordine, previsto dal progetto stesso, mantenendo una uniformità stilistica, nonostante l’ardito disegno di innalzare una facciata a torre. Il lavoro del Labisi fu oltremodo importante, in quanto l’architetto netino riuscì realizzare il III ordine in maniera perfettamente fedele al resto della facciata. [19] Il III ordine fu completato nel 1780 avendo previsto nel 1777 il posizionamento delle campane più grandi nell’apposita cella, e dell’orologio meccanico nel suo quadrante[20].
Le campane e l’orologio, completato il III ordine, furono spostati nel 1777 al piano superiore, lasciando vuoti, come li vediamo attualmente, la cella campanaria del II ordine ed il relativo quadrante dell’orologio. Il rifacimento in nuovo stile della facciata del duomo, a distanza di 78 anni dall’inizio dei lavori, poteva definirsi quasi completato, mancando però il coronamento del III ordine e la guglia finale con la croce. A questo provvede, con un suo progetto, il ragusano Carmelo Cultraro, coadiuvato dai maestri di fabbrica Primo Muccio e Gaudenzio Lauretta, dal 1841 al 1842.
Nel 1841 (atto del 26 marzo) fu infatti dato incarico al “capomaestro di fabbrica” Carmelo Cultraro di realizzare, entro un anno e cinque mesi, una guglia su cui apporre la croce in ferro, a completamento del progetto originario della chiesa madre: « … li sudetti Cultraro, Muccio e Lauretta … in virtù di questo atto autentico … promettono, e si obligano di … terminare il terzo ordine, e fare il quarto, il quinto, e il sesto ordine … con tutte le fabbriche necessarie in detta opera, ben cimentate con buono impasto, la maggior parte di quali fabbriche dovrà essere rivestita di pezzi di pietra calcare tenero … ». La committenza al Cultraro, dettagliatissima, elenca minuziosamente le sculture, le forme, i fregi, i decori, di cui dotare la cuspide della chiesa. Nel 1842 anche questo progetto era interamente compiuto, come attesta un cartiglio lapideo apposto nel coronamento che sormonta il III ordine.
Con l’autoproclamazione a chiesa madre del tempio dedicato a San Pietro, la chiesa “ufficiale” dei conti di Modica in quanto prossima al castello e in maggior misura finanziata dall’opulenta nobiltà modicana, ha inizio una acerrima e secolare disputa fra autorità capitolari sostenute dai fedeli e dai devoti delle contrapposte realtà parrocchiali.[21]
Scontri tra fazioni – sangiorgesi contro sanpietresi (Giorgesi e Pietresi) – che sfociavano spesso in scaramucce, intolleranti dispetti, determinata ignoranza e mancata osservanza di regole, sconfinamenti – anche durante i cortei processionali, futili motivi e pretesti che si tramutavano in provocazioni, non di rado concretizzandosi in fitte sassaiole, solenni bastonature collettive, mutui danneggiamenti, divieti di ogni genere. Giuseppe Pitrè riferisce di canzonature, epiteti volgari, insulti reciproci, coinvolgimento di bambini, minacce vicendevoli.[22]
A derimere le varie questioni canoniche o d’ordine pubblico erano chiamate a pronunciarsi di volta in volta sia la Consulta di Sicilia che la Curia Romana, senza trascurare i corsi e ricorsi che prolungavano all’infinito le diatribe legali.[23] Solo due secoli dopo per decreto regio di Carlo III di Borbone del 16 settembre 1797,[23] si pone fine alla prolungata questione, segnando fisicamente i confini territoriali, invitando chiunque a rispettare le disposizioni del sovrano.[24]